Stefania Colombo/ aprile 25, 2020/ articoli, Stefania Colombo/ 0 comments

Tempo di Coronavirus.

Facile? Scontato? Banale? Per nulla. Essere liberi non significa poter fare tante cose. O scegliere di non farle. Sappiamo tutti che il concetto di libertà è tutt’altro che assoluto: è influenzato soggettivamente dai modelli educativi ricevuti, dalla cultura di appartenenza, dal livello di autostima che si possiede; è condizionato oggettivamente dal contesto sociale e familiare, dalla contingenza delle circostanze.

Questo tempo, in cui la nostra libertà sembra essere giustamente limitata, mi porta a riflettere su cosa significhi esattamente essere liberi. Non ho delle risposte ma solo riflessioni e domande.

Prima domanda: Cosa succede quando il nostro diritto alla libertà viene messo in discussione in nome della tutela della nostra vita.

Non c’è risposta a questa domanda o almeno io non l’ho trovata. L’uomo non baratta la propria libertà con la propria vita, perché sa bene che se non c’è vita non c’è libertà.

Molte delle grandi dittature sono salite al potere in nome della salvaguardia della vita.
E’ questo che mi spaventa.
Stiamo sperimentando sulla nostra pelle che nel nome della salute è possibile revocare la libertà, sospendere i diritti elementari e la democrazia, imporre senza se e senza ma norme restrittive, fino al coprifuoco.
Non sto mettendo in discussione la profilassi e la prevenzione adottate, magari posso dissentire sui singoli provvedimenti o sulla loro arbitraria e casuale applicazione, su tempi e sui modi ma è ovvio che l’unico modo per rallentare un’epidemia è limitare le possibilità di contagio.
Ciò che mi spaventa è la modalità con cui questi limiti vengono suggeriti/ imposti.
Attraverso la diffusione della paura.
Il tema di fondo è antico quanto l’uomo e la politica. Il potere regge sulla paura, lo diceva Hobbes e in modi diversi Machiavelli. E lo dicevano gli antichi prima di loro. E la paura è sempre, alla fine, paura di morire.
Pensate, è come se io educassi i miei figli facendogli credere che se non seguono le mie direttive moriranno.
La minaccia della morte ci priva automaticamente della libertà.

E quindi?
Quindi non so, ma mi chiedo: ”Fino a che punto sono disposta a modificare la mia vita e a cambiarne la qualità, pur di ascoltare la promessa di vivere più a lungo ed evitare la possibilità di ammalarmi o di mettermi in pericolo?”.

Seconda domanda: Chi è il nemico che stiamo combattendo?

In un articolo uscito su Internazionale pochi giorni fa, Daniele Cassandro segnala che “l’emergenza Covid-19 è quasi ovunque trattata con un linguaggio bellico: si parla di trincea negli ospedali, di fronte del virus, di economia di guerra”.
Citando Susan Sontang, “trattare una malattia come fosse una guerra ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, vittime designate”.

Come psicoterapeuta mi permetto di dire che, la metafora del paese in guerra è rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo, perché di nuovo ci pone in uno stato di timore e paura.
Differenzia le vittime dagli eroi, i buoni dai cattivi. Ci inscrive automaticamente in un copione dove ognuno ha un ruolo e un destino.
Gli eroi vengono celebrati celebrati, ma morti.
Le vittime rischiano la vita e in genere muoiono.
I buoni sanno cosa è buono.
I cattivi vanno combattuti.
Parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne. Ci mette gli uni contro gli altri. E’ perché aderiamo a questo copione che vediamo i nostri vicini come possibili portatori del virus o accusiamo e denunciamo chi secondo noi non segue le regole.
Chi sono i veri nemici di questa guerra?
Qual è il mio ruolo in questa guerra?

Non è una guerra, ma è pericoloso pensare che lo sia perché, in questa cornice, risultano legittimate molte azioni contro cui in genere ci opporremmo.
Solo in uno scenario di guerra possiamo accettare che qualcuno possa decidere chi deve vivere e chi deve morire.
Solo in uno scenario di guerra possiamo pensare che una vita meriti di essere salvata più di un’altra.
Solo se pensiamo di essere in guerra possiamo accettare di morire lontano dai nostri cari.

Io non sono in guerra e se c’è una guerra io posso decidere di non combatterla.

Terza domanda: Chi decide cosa è meglio per noi al tempo del Coronavirus?

Sono sempre stata solita rimandare ai miei pazienti che loro e solo loro sono in grado di sapere e decidere il meglio per sé stessi. Basta imparare ad ascoltarsi. Prendere in mano la propria vita significa essere responsabili di sé stessi, ma anche più potenti e più capaci di dare la forma che vogliamo al nostro futuro.

Ma possiamo veramente scegliere per noi stessi, se abbiamo abdicato a questo nostro potere perché siamo in preda alla paura e all’insicurezza? Credo che, ogni decisione che prendiamo nell’oggi, debba vivere dentro a possibili scenari futuri, dal migliore al peggiore nel rispetto di sé stessi e degli altri.
Di questi tempi però, pare funzioni meglio chi decide e costruisce le proprie azioni come se le cose andassero nel peggiore dei modi de attua le condizioni per sopravvivere in quella situazione. La ragione è abbastanza semplice: è molto più facile, di fronte al realizzarsi di condizioni migliori di quelle attese, cambiare le azioni e fare meno sacrifici. Chi invece prefigura ai propri interlocutori uno scenario migliore e prende decisioni conseguenti, di fronte al verificarsi di quello peggiore perderà credibilità.
Per scampare al peggio tutti siamo pronti a fare di tutto.
Uscireste di casa se vi dicessero che sicuramente sarete aggrediti, picchiati e derubati?

Come vi dicevo non ho risposte a queste domande, ma se volete posso condividere con voi le linee guida che mi fanno navigare in mezzo a tutte queste riflessioni, che sono queste:
– Accetta ma non rassegnarti.
– Sii gentile con te stessa e gli altri.
– Ammetti le tue emozioni.
– Informati e pensa con la tua testa.
– Abbi fede.
– Non rinunciare alla tua e alla altrui libertà.

 

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