Stefania Colombo/ settembre 14, 2020/ articoli, Stefania Colombo/ 0 comments

Non ho mai appoggiato la terapia a distanza attraverso l’utilizzo di videochiamate, mail, o telefonate, e tutt’oggi credo che un percorso terapeutico sia gravemente penalizzato dall’utilizzo di questi mezzi in sostituzione del classico appuntamento in cui ci si incontra e si interagisce di persona.
Tuttavia, sin dall’inizio di questa pandemia non ho avuto dubbi nel rivolgermi a questi strumenti per mantenere un contatto con i miei pazienti e con il mio terapeuta/supervisore.
In realtà non mi sono sentita di fronte ad una possibile scelta. Alcuni miei pazienti erano molto spaventati da ciò che stava accadendo, altri increduli, alcuni bloccati lontano da casa o dai propri affetti più intimi. Trovare un modo per stare con loro, per sostenerli durante ciò che stava accadendo mi è sembrato del tutto naturale. Non che io non avessi un tornaconto psicologico nel continuare il mio lavoro, sicuramente non posso dire di aver agito solo nell’interesse dei miei pazienti. Forse anche io non potevo pensare di rinunciare completamente al mio lavoro e al mio ruolo.
Mentirei se non riconoscessi che il poter continuare a lavorare, anche se non nelle condizioni a me più congeniali, non mi abbia aiutato, sostenuto, dato un senso durante questi giorni folli.
Fin dalle prime sedute però mi sono resa conto che sia io che il mio paziente avremmo dovuto fare i conti con una dissonanza creata dal fatto di stare insieme, ma non –davvero insieme.
Questa dissonanza incideva più o meno sulle sedute a seconda anche dei vari clienti. Per alcuni era percepita come un’agevolazione, poiché forniva la possibilità di costruire una relazione mediata da una distanza rassicurante che permetteva a questi pazienti di sentirsi più a proprio agio. Per altri questo essere insieme, ma non-insieme evidenziava una mancanza e si traduceva come fatica all’interno della seduta.
Per quanto riguarda me, fin da subito la mia percezione a fine giornata dopo alcune video sedute è stata quella di sentirmi affaticata come in genere non mi succedeva mai, nemmeno nelle giornate più intense. Mi sono chiesta da dove nascesse tale fatica. In particolare, sentivo uno sforzo mentale che non ricordavo più da tempo, e che sicuramente non era più mio da quando ho iniziato a praticare la bioenergetica.
Una chiave di lettura me l’ha fornita un paziente, che durante una seduta ha detto una cosa a cui non avevo pensato, ovvero che nelle videochiamate le nostre menti partecipano alla presenza della mente dell’altro, ma i nostri corpi non sono coinvolti e ciò che percepiscono, invece è l’assenza dell’altro. Ho realizzato che questa condizione crea sicuramente una dissonanza che alla lunga può essere faticosa perché confonde, è infatti più facile fare i conti una condizione di maggiore definizione (l’altro è presente o l’altro è assente) che con la presenza della sua assenza. Ho subito pensato a mio figlio piccolo di tre anni e come per lui sia faticoso il contatto telefonico o attraverso il video. Mi sono anche ricordata di quando facevo il mio training a Roma e mi collegavo con mia figlia che allora aveva solo 2 anni, di come il vedermi ma il non poter godere del mio contatto le ricordasse maggiormente che non ero li con lei.
Riflettendo ulteriormente ho capito che anche altri fattori andavano ad incidere sulla mia percezione di maggior fatica.
Durante una seduta normale tutto il mio essere partecipa e gode della presenza dell’altro e il mio paziente, è nella stanza con me con tutto sé stesso. Quando comunichiamo anche i nostri corpi sono coinvolti e anzi molta parte della comunicazione è affidata al linguaggio corporeo.
Non che dal video non si possa vedere il corpo dell’altra persona, ma spesso la parte inquadrata è quella del volto (se tutto va bene….e se il paziente ha capito come porsi di fronte alla telecamera Mi è infatti capitato di fare sedute anche solo con mezzi busti senza testa o con inquadrature di mezza faccia o di fronti o menti.)
Invitare il paziente al lavoro corporeo mi era spesso difficile, in molte occasioni impossibile, sia perché il paziente non si trovava nel setting adeguato, sia perché spesso non si sentiva libero nella sua espressione, perché magari non poteva alzare la voce o fare rumore per non disturbare il resto della famiglia, o dei conviventi, presenti nelle altre stanze della sua abitazione.
Io stessa soffrivo del fatto di non poter interagire dal vivo con il corpo del mio paziente, aumentando o diminuendo la distanza, fornendogli un contatto diretto o un sostegno toccandolo. E’ vero che anche con la voce, modulandone il tono si può fornire un sostegno adeguato….ma non direi che sia la stessa cosa.
Un’altra fatica era determinata dal dipendere da un mezzo per interagire con il mio paziente: in alcune sedute la ricezione del video e dell’audio non era buona, c’erano spesso interruzioni e capitava pure di perdere la connessione. La comunicazione diventava così poco fluida e il fluire delle emozioni poteva essere interrotto o alterato.
Un’altra differenza che ho percepito molto significativa per me è stato il mio modo di vivere le pause e i silenzi del mio paziente attraverso il video, mi sembravano spazi vuoti e mi sentivo obbligata a riempirli. Non so dire se tale percezione era condizionata unicamente dall’utilizzo della videochiamata ma sicuramente, il mio modo di percepire il silenzio in una seduta dal vivo è differente.
Un’altra difficoltà incontrata è stata quella di sentirmi limitata nell’utilizzo degli strumenti che conosco e che solitamente posso mettere in campo durante una seduta. Molti lavori infatti richiedono la presenza fisica ed un setting adeguato per poter essere attivati. Mi sono resa conto che a volte mi sono trattenuta nel proporre ai miei pazienti lavori che sapevo potenzialmente regressivi temendo di non poterli sostenere nel modo adeguato nella distanza.
Superato però un primo momento di fatica e di insofferenza verso il dover utilizzare le videochiamate per continuare il percorso con i miei pazienti mi sono accorta anche di alcuni piccoli vantaggi che mi venivano forniti dal video collegamento.
Nel focalizzarmi sulla immagine dello schermo, in un quadrato piccolissimo in alto a destra, ho notato che c’ero io riflessa e potevo scrutare esattamente tutte le mie espressioni facciali e il mio modo di gesticolare. Non mi era mai capitato di potermi vedere interagire con il paziente da fuori, e la cosa mi ha incuriosita. All’inizio mi sembrava difficile poter condurre la seduta, e osservarmi contemporaneamente, ma era comunque interessante poter osservare le mie reazioni espressive rispetto ai racconti dei pazienti. Ho realizzato poi che anche il mio paziente vedeva sé stesso riflesso, e avrei così potuto anche aiutarlo ad autoosservare il suo non verbale. Ad esempio, come aggrottava la fronte, come se si stesse sforzando per ascoltare i miei rimandi, o come stortava la bocca quando dentro di sé respingeva una mia osservazione anche se col capo stava annuendo. Anche il mio paziente si vedeva riflesso e poteva cogliere e rendersi consapevole delle sue espressioni automatiche.
Guardarsi mentre il volto esprime, in modo non verbale, una certa emozione attiva i neuroni specchio. Tale processo favorisce un maggior riconoscimento dell’esperienza emotiva senza effettuare un lavoro autoriflessivo, perché, proprio per le caratteristiche intrinseche del sistema mirror, si attiva un riconoscimento preriflessivo, immediato ed automatico. Di conseguenza, però, riflettere consapevolmente su questi processi favorisce una maggiore conoscenza autoriflessiva in termini cognitivi ed emotivi.
Certo c’è un punto che resta un po’ in ombra: e il resto del corpo? Questo aspetto forse come dicevo anche precedentemente effettivamente si perde un po’.
Non possiamo certo ignorare che riflettere sul nostro lavoro di psicoterapeuti e sul percorso dei nostri pazienti in questo periodo non può limitarsi ad una riflessione sull’utilizzo delle videochiamate al posto delle sedute in presenza. La particolarità del periodo attraversato ha sicuramente influito e impattato sulla storia di ogni persona. Ognuno ha reagito nel suo particolare modo: alcuni pazienti più resilienti, hanno messo in campo nuove risorse o hanno fatto maggior affidamento su sé stessi, c’è però anche chi si è chiuso, alcuni sono andati nella paura e nel panico, altri ancora si sono ritirati usando l’isolamento non come momento costruttivo, ma come area di fuga dalle difficoltà che sentivano di dover affrontare quotidianamente molti, privati della dimensione del fare, si sono appiattiti e avvizziti come delle piantine.
Questo tempo, infatti, ci ha imposto restrizioni che bruscamente hanno ridotto la nostra dimensione del fare.
Per alcuni dei miei pazienti questo brusco rallentamento è stata l’occasione per ritrovare dei ritmi più umani, e per portare la terapia sempre più vicina a delle riflessioni sull’essere. Per intenderci molti sono passati da domande come, cosa faccio, come mi devo comportare, a chiedersi, cosa voglio, cosa mi fa bene, quali sono i miei bisogni? Ma per altri miei pazienti questo brusco passaggio è stato destabilizzante. Per apportare un profondo cambiamento nella nostra vita trovo fondamentale cambiare prima di tutto punto di vista da quale osservare non solo il mondo e le situazioni, ma noi stessi.
Passare cioè dal “ciò che succede fuori mi influenza” al “ciò che succede dentro di me influenza l’ambiente in cui vivo”.
Uno dei più grandi geni della storia, Albert Einstein, disse che i problemi che abbiamo non possono essere risolti mantenendo lo stesso livello di pensiero che li ha generati.
Questo passaggio però non è così scontato e ho notato che tolta la dimensione del fare, per alcuni dei miei pazienti era difficile portare degli argomenti in terapia, come a dire: “questa settimana non è successo nulla di nuovo, non ho fatto nulla, quindi non so di cosa parlare.”
Con questi pazienti in particolare ho faticato maggiormente, perché la mia tendenza è quella di prendermi la responsabilità del percorso sulle mie spalle e di attivarmi quando l’altro non si attiva.
Ho dovuto quindi stare più attenta a non entrare nella mia spinta dello “sforzati”.
Molte sarebbero ancora le riflessioni sui risvolti psicologici che questo periodo ha avuto sui miei pazienti e anche su me stessa. Aver potuto offrire ai miei pazienti la possibilità di continuare il loro percorso, anche se non in presenza ma da remoto è stato sicuramente sotto tutti gli aspetti positivo, sia per loro che per me. Tuttavia sono felice di tornare alla ricchezza della seduta in presenza, poiché la mia convinzione rimane che una relazione costruita a distanza non può essere paragonata alla relazione vissuta in presenza dell’altro. Penso che all’interno di un percorso di psicoterapia l’utilizzo di video sedute possa essere una risorsa da utilizzare nell’emergenza o in casi particolari, per un tempo limitato. Una terapia interamente on line forse è possibile ma non è a mio parere paragonabile ad un classico percorso e inoltre personalmente non la sento nelle mie corde. Proprio per questo motivo già a partire dal 18 maggio ho ripreso, per chi lo desiderava, le sedute individuali in presenza ( ovviamente prendendo tutte le precauzioni e seguendo le indicazioni sanitarie). Devo dire che ad oggi l’80% dei miei pazienti ha preferito tornare per i colloqui in studio. Rimangono on -line i gruppi di psicoterapia e alcuni pazienti ancora non rientrati a Milano. Una piccola percentuale è ancora “spaventata” dall’uscire di casa e quindi di venire in studio, si tratta però di casi gravi e di pazienti già inclini al pensiero ossessivo, fobici o ipocondriaci. Infine segnalo che ho rilevato che alcuni pazienti trovano “ più comodo” collegarsi on line e ancora mi chiedono di collegarsi a distanza, sono però quei pazienti che già prima della pandemia faticavano a prendersi la piena responsabilità del percorso e poco disposti alla fatica che una relazione reale a 360° gradi comporta.
                                                                                  

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